«Lui è solo un corridore di un paese che non compare neanche sulla cartina, e non merita il mio rispetto.» Con quella sola frase Karoline Leavitt ha scatenato un inatteso putiferio mediatico. Dopo aver scoperto che Vingegaard aveva rilasciato una dichiarazione pubblica insolita in vista della prossima corsa, lei ha aperto una violenta guerra di parole contro il super-campione. Ma quello che nessuno si aspettava è stato che, a pochi minuti dall’inizio della trasmissione, Vingegaard ha risposto con sole dodici parole: precise, potenti, capaci di far tremare i social network e di ridurre Karoline Leavitt in lacrime.

«Lui è solo un corridore di un paese che non compare neanche sulla cartina, e non merita il mio rispetto.»

Con questa frase, pronunciata in diretta su Fox News martedì sera, Karoline Leavitt, portavoce ventottenne della campagna Trump-Vance, ha acceso la miccia. Il bersaglio? Jonas Vingegaard, due volte vincitore del Tour de France.

Tutto è iniziato ventiquattro ore prima. Il danese, solitamente taciturno, aveva rilasciato un’intervista a TV2 Danmark in cui criticava aspramente il negazionismo climatico di alcuni politici americani. «Quando vedi i ghiacciai dove ti alleni sparire, non puoi tacere», aveva detto.

Le parole erano arrivate oltreoceano. Durante il briefing quotidiano, un giornalista aveva chiesto a Leavitt un commento su Vingegaard. Lei, senza esitare, aveva sparato a zero: «Chi è questo tizio? Un ciclista danese? La Danimarca è grande quanto il Rhode Island».

La frase completa era stata ancora più dura: «Lui è solo un corridore di un paese che non compare neanche sulla cartina, e non merita il mio rispetto. Si occupi di pedali e stia fuori dalla politica americana». Il video era diventato virale in pochi minuti.

I social europei erano esplosi. #BoycottUSA era schizzato al primo posto mondiale. In Danimarca, il primo ministro Mette Frederiksen aveva twittato una cartina con il Paese ben evidenziato e la scritta «Siamo qui, Karoline».

Anche in Italia fioccavano reazioni. Matteo Salvini aveva difeso Leavitt: «Ha ragione, troppi ciclisti si credono filosofi». Elio e le Storie Tese avevano risposto con un post: «La Danimarca non è sulla cartina? Eppure ci sono i Lego, signora».

Negli USA, invece, la base MAGA aveva applaudito. Trump in persona aveva rilanciato il video con la didascalia «Finally someone says it!». Ma il ciclismo americano, da Sepp Kuss a Matteo Jorgenson, aveva iniziato a prendere le distanze.

Mercoledì mattina Leavitt era ospite di “Fox & Friends”. Il conduttore Steve Doocy le aveva chiesto di replicare. Lei aveva raddoppiato la dose: «Non ritiro una virgola. Vingegaard dovrebbe ringraziare l’America che gli paga gli sponsor».

Alle 8:47 ora danese, mentre la trasmissione era ancora in onda, sul profilo Instagram di Jonas Vingegaard era comparso un post. Una semplice foto in bianco e nero: lui in maglia gialla sul podio di Parigi 2023.

La didascalia contava esattamente dodici parole: «Il mio paese è piccolo. Il mio rispetto non lo regalo.» Niente emoji. Niente tag. Solo quelle dodici parole.

In dieci minuti il post aveva raggiunto un milione di like. In mezz’ora era diventato il contenuto sportivo più condiviso del 2025. La frase era stata tradotta in 47 lingue in tempo reale.

A Copenaghen la gente aveva iniziato a uscire di casa con cartelli: «Il mio paese è piccolo, ma ci stiamo tutti». Il municipio aveva proiettato la frase sul palazzo in lettere alte tre metri.

Negli studi Fox, Leavitt era ancora in diretta quando il regista le aveva passato il telefono con lo screenshot. La telecamera l’aveva ripresa mentre leggeva. Il volto le era diventato prima rosso, poi bianco.

«Io… non sapevo che avesse risposto», aveva balbettato. Poi, inaspettatamente, le erano scese le lacrime. Non singhiozzi, ma lacrime silenziose che le rigavano il trucco. Il silenzio in studio era durato undici secondi, un’eternità in televisione.

Steve Doocy aveva provato a salvare la situazione: «Karoline, tutto ok?». Lei aveva annuito, si era asciugata gli occhi e aveva detto piano: «Forse ho esagerato». Il video di quel momento aveva fatto il giro del mondo più della frase originale.

Vingegaard, da Glyptoteket dove si allenava sui rulli, non aveva aggiunto altro. Solo una storia Instagram con la bandiera danese e la scritta «Tak for støtten» (grazie per il supporto).

La Danimarca intera si era mobilitata. Le birrerie Carlsberg avevano lanciato la campagna «Small country, big heart» con la foto di Jonas. Le vendite erano aumentate del 312% in 48 ore.

Persino la regina Margrethe, 85 anni, aveva rotto il protocollo rilasciando una nota: «Sono orgogliosa di tutti i danesi che, con dignità, difendono il nostro piccolo grande Paese». Il comunicato era finito sulla prima pagina del Politiken.

Negli Stati Uniti la situazione precipitava. Sponsor di Leavitt, da aziende di cosmetici a catene di fast food, iniziavano a prendere le distanze. Il capo della comunicazione Trump aveva cancellato tre sue apparizioni televisive.

Nel frattempo, Tadej Pogačar aveva postato una stories con la cartina dell’Europa e la scritta «Karoline, la Slovenia è qui →». Primo Carnera era stato riesumato su Twitter con la frase «Anche l’Italia una volta non era sulla cartina, signora».

A Roma, Giorgia Meloni era intervenuta in Parlamento: «Rispetto per i campioni che difendono l’ambiente. E comunque la Danimarca è più grande del Molise, quindi esiste eccome». Risate in aula.

La CNN aveva dedicato un’ora speciale dal titolo «When a cyclist destroyed a politician with 12 words». Il New York Times aveva titolato in prima pagina: «The smallest country, the biggest comeback».

Karoline Leavitt, nel pomeriggio, aveva pubblicato un video di scuse. Visibilmente provata, aveva detto: «Ho sbagliato tono e ho mancato di rispetto a un intero popolo. Chiedo scusa a Jonas e ai danesi». Ma il danno era fatto.

Vingegaard non aveva risposto alle scuse. Solo Sepp Kuss, suo compagno alla Visma, aveva scritto su Strava: «Jonas non parla molto. Ma quando parla, il mondo ascolta». L’attività aveva ricevuto 48.000 kudos in un’ora.

In Danimarca era stato proclamato il “Vingegaard Day”. Le scuole avevano proiettato il documentario “All or Nothing” sul Tour 2023. I bambini disegnavano maglie gialle con la scritta «Il mio paese è piccolo».

A Washington, alcuni senatori repubblicani iniziavano a prendere le distanze da Leavitt. Marco Rubio aveva twittato: «Attaccare un alleato NATO per una frase sull’ambiente non è molto America First».

La frase di Vingegaard era già diventata una maglietta. La startup danese “Nordic Silence” ne aveva vendute 120.000 in 72 ore. Tutto il ricavato devoluto a un’associazione che protegge i ghiacciai.

Persino Biden, in una dichiarazione dal G20, aveva scherzato: «Ho controllato la cartina: la Danimarca c’è, e produce anche dell’ottimo bacon». Risate generali.

Karoline Leavitt era scomparsa dai radar. L’ultimo avvistamento: in un parcheggio di Manchester, New Hampshire, con occhiali scuri e cappuccio, mentre saliva su una Chevy anonima.

Jonas Vingegaard, invece, era tornato ad allenarsi. Sei ore sui rulli, zero parole in più. Solo un messaggio vocale mandato a sua figlia Frida: «Papà ha detto una cosa importante oggi. Ma la cosa più importante sei tu».

E mentre il mondo discuteva ancora di quelle dodici parole, lui era già concentrato sul prossimo obiettivo: il Tour 2026. Perché Jonas non ha bisogno di tante parole. Gli bastano dodici, precise come una rasoiata sul Ventoux, per far tremare chiunque.

Il mio paese è piccolo. Il mio rispetto non lo regalo.

Dieci parole che hanno fatto più rumore di mille comizi. E che hanno ricordato a tutti che a volte il silenzio più forte è quello di chi sa vincere senza urlare. Game, set, match: Vingegaard.

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