“6 milioni di poveri, 6 milioni senza cure, e politici che ci disprezzano”. Sigfrido Ranucci, con la voce rotta, racconta la storia di Miriam, morta a 20 anni, e svela il “paese malato” che permette ai condannati per mafia di tornare al potere. Un attacco durissimo contro chi spia i giornalisti e poi viene rieletto. La libertà di stampa è in fin di vita, e questo discorso lo dimostra. Non perderti l’articolo completo nel primo commento! Ranucci: “Diffidate da politici che non rispondono alla stampa, disprezzo per i cittadini”

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L’applauso che accoglie la squadra di Report sul palco non è solo un omaggio, è un abbraccio. È il rumore della solidarietà. Ma Sigfrido Ranucci, il volto e il coordinatore di quella squadra, è lì per trasformare quell’abbraccio in un pugno, per dare a quel calore la forma di una denuncia. Sale sul palco non solo come giornalista, ma come simbolo di un servizio pubblico sotto attacco, con la sua squadra che ha “messo a rischio la loro salute e la loro sicurezza” per un ideale.

Ringrazia tutti, dai colleghi ai leader politici, persino “esponenti del governo” che gli hanno espresso solidarietà. Ma chiarisce subito che non è lì per i convenevoli. È lì per “riempire di contenuti il senso della libertà di stampa”.

E i contenuti, nelle parole di Ranucci, sono la carne viva di un Paese sofferente. “Libertà di stampa”, scandisce, non è una parola vuota. Significa spiegare “perché 6 milioni di italiani non possono curarsi”. Significa dare un nome ai “50.000 reati contro l’ambiente”, ai “6 milioni di poveri”, ai “300.000 disabili che non hanno il dovuto contributo”, ai “300.000 insegnanti precari”. Significa, infine, onorare i “65 uomini delle forze dell’ordine” che muoiono ogni anno per servire lo Stato.

La libertà di stampa, per Ranucci, è questo: informare per “consegnare alle future generazioni un mondo migliore”. E per far capire perché questa battaglia non è un’astrazione ma una necessità vitale, condivide una storia che ammutolisce la platea.

Racconta di una madre che, a Modena, gli ha consegnato una lettera. “Mia figlia è morta la scorsa settimana”, gli ha detto. La figlia, Miriam, una ragazza “bellissima” di 20 anni, malata di tumore incurabile, costretta a lasciare la sua regione perché non poteva fornirle l’assistenza necessaria. Miriam ha passato gli ultimi due anni della sua vita a guardare le puntate di Report. E in punto di morte, ha chiesto alla madre di consegnare quella lettera, ringraziando Ranucci e la sua squadra “per il lavoro fatto per il bene comune”.

È una storia che lacera l’anima, e Ranucci la usa per girare il coltello nella piaga. “Non perdete occasione ogni giorno di fare qualcosa per gli altri”, dice, con la voce rotta dall’emozione. È il punto di non ritorno del suo discorso. Ha stabilito la posta in gioco: la vita, la morte, la dignità. E da qui, parte l’attacco.

 

“Diffidate dei politici”. La frase cade come un sasso nello stagno. “Diffidate dei politici che non rispondono alla stampa. È un senso di disprezzo nei confronti del pubblico”. Il contrasto è netto. Da un lato, la sua squadra, che “si è assunta sempre le sue responsabilità, anche mettendo a rischio la propria vita”. Dall’altro, i politici “che scappano”, che non si assumono le loro responsabilità.

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E poi, l’ombra che aleggiava su tutto l’evento: la bomba. L’ordigno rudimentale piazzato davanti alla sua casa. Ranucci la affronta a viso aperto. “Non so chi ha messo quell’ordigno”, ammette. Ma una cosa la sa. “Se il tentativo era quello di zittire me e la mia squadra, ha sbagliato obiettivo”.

Collega la bomba non a sé stesso – “sono anni che non faccio più inchieste” – ma al lavoro dei suoi ragazzi. È una bomba contro di loro, contro chi ha “toccato dei centri di potere, anche quelli occulti”. L’intimidazione fisica è solo la punta dell’iceberg. Il vero attacco, spiega Ranucci, è più subdolo, più pericoloso, ed è legale.

Qui Ranucci si trasforma in un pubblico ministero e porta alla sbarra l’intero sistema. “Stiamo scivolando”, avverte. Stiamo scivolando a causa di “leggi liberticide” che, anno dopo anno, governo dopo governo, hanno un solo obiettivo: “delegittimare la magistratura, le forze dell’ordine e l’informazione”.

Inizia l’elenco degli orrori legislativi. Primo: il carcere per i giornalisti. La legge che minaccia la galera per chi pubblica “notizie illecitamente raccolte”. Ranucci fa un esempio che gela il sangue. Le grandi inchieste internazionali come i Panama Papers o i Paradise Files, che hanno denunciato l’evasione fiscale di ricchi, politici e reali, sottraendo “denaro pubblico, tasse non pagate, meno salute, meno istruzione, meno welfare”. Bene, quelle inchieste sono state possibili grazie a database “hackerati”, tecnicamente “notizie illecitamente raccolte”. “Mentre negli Stati Uniti” – sottolinea con sarcasmo – “il consorzio è stato premiato con il Pulitzer, qui in Italia con le nostre leggi a oggi rischierebbe il carcere”. La sua conclusione è amara: “Questo fa capire che siamo un paese malato”.

Secondo: il divieto di pubblicare i nomi degli arrestati. Una norma venduta sotto la bandiera della “presunzione di innocenza”. Ranucci la smaschera: è la vittoria del segreto. “Il segreto è solo nella testa di chi ha concepito quella legge”, tuona. “Se tra gli arrestati c’è qualcuno che amministra la cosa pubblica, e quel segreto viene utilizzato per prendere decisioni che danneggiano la collettività, bene, la collettività neanche lo saprà”. È la morte della trasparenza, la licenza di governare nell’ombra.

Terzo: la legge Cartabia e il meccanismo dell’improcedibilità. Se un processo dura troppo (due anni in appello, uno in Cassazione), l’imputato può “uscire definitivamente dal processo e farla franca”. Ma Ranucci svela l’inganno nascosto che nessuno racconta. “La legge gli consente anche di rendersi anonimo nei confronti della collettività”. È un doppio trionfo per il colpevole: la fa franca giudiziariamente e “anche dal punto di vista reputazionale”. Il cittadino non saprà mai chi ha “danneggiato la qualità della vostra vita”.

Le conseguenze di questo sistema sono terrificanti. Limitare l’informazione, spiega Ranucci, significa “limitare la libertà di conoscere i mandanti esterni delle stragi di mafia”. Significa creare un paradosso dove i magistrati che hanno combattuto la mafia diventano “colpevoli” e chi, invece, “è stato condannato per mafia, riabilitato, può essere la stampella di un governo”.

È un “paese talmente malato”, continua Ranucci, che si abitua alla sua stessa patologia. Un paese dove “possiamo permetterci dei politici che hanno fatto spiare i giornalisti, che hanno tentato di delegittimarli per bloccare inchieste” sull’Ndrangheta, e che poi vengono “rieletti” e “candidati come presidenti delle regioni”.

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L’attacco al giornalismo è sistemico. Ranucci snocciola le cifre di un bollettino di guerra: 30 giornalisti uccisi dal dopoguerra. Il record europeo di giornalisti minacciati (oltre 600). 300 giornalisti sotto tutela, 26 sotto scorta. E, infine, “il record mondiale di politici che denunciano i giornalisti”.

 

La sua difesa si estende poi ai più deboli: i giornalisti locali. Loro non hanno la RAI alle spalle. Sono “sotto pressione dell’imprenditore locale, del criminale locale, del politico locale”. E spesso, denuncia Ranucci, queste tre figure “sono tutti e tre in una persona sola”, che è persino “l’editore di alcuni giornali”. Sono loro, i giornalisti locali, “l’anticorpo periferico” che va rafforzato, pagato meglio, protetto con una vera legge contro le querele temerarie.

Il discorso di Sigfrido Ranucci si chiude con un appello. Chiede al pubblico di trasformare la solidarietà in azione. Chiede di diventare una “scorta mediatica” non solo per Report, ma per il diritto di tutti a essere informati. La sua battaglia non è per sé stesso, è per Miriam, è per i 6 milioni di poveri, è per un paese che rischia di non riconoscere più il confine tra il bene e il male.

“Quello che vi chiedo”, conclude, “è di impegnarvi già da oggi nel difendere con le vostre scelte il vostro diritto di essere informati. Perché non dobbiamo consentire a nessuno di renderci infelici”.

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