Il dibattito politico nazionale è una polveriera, e l’ultima scintilla arriva da una delle penne più affilate e irriverenti del giornalismo italiano. Vittorio Feltri ha lanciato un’accusa che non è solo una critica, ma un vero e proprio macigno che si è abbattuto sul fragile castello di certezze di una certa sinistra, scatenando il caos. Nel mirino, un’iniziativa internazionale che solca i mari della polemica: una spedizione navale verso una zona di guerra, prontamente ribattezzata dai suoi detrattori “la flottiglia della presunzione”.
Non si tratta di gossip da corridoio, ma di un’analisi profonda e tagliente che mette a nudo lo scontro frontale tra l’attivismo moderno, spesso intriso di buone intenzioni, e la dura, spigolosa realtà della geopolitica. Le parole di Feltri hanno agito come un detonatore, smascherando quella che molti percepiscono come una pericolosa deriva.
Immaginate la scena, che sembra tratta da un film satirico più che dalla cronaca: un gruppo di attivisti, animati da quelle che definiscono “nobili intenzioni”, si imbarca in una missione autoproclamata umanitaria. Peccato che, agli occhi dei critici, questa spedizione assomigli più a un “tour pubblicitario galleggiante per anime buone a tempo perso”. Una vera e propria buffonata, secondo Feltri, che però rischia di avere conseguenze drammaticamente reali, ben più gravi di un semplice scivolone mediatico.
Vittorio Feltri, con la sua consueta e brutale schiettezza, non ha usato mezzi termini. Ha puntato il dito contro i protagonisti di questa avventura, definendoli senza appello “una flotta di presuntuosi”. Un’etichetta sprezzante che, tuttavia, è stata lodata da molti per aver avuto il coraggio di squarciare il velo di ipocrisia. L’accusa è quella di aver messo in scena un “finto coraggio”, fatto di gesti eclatanti, di pose per i social, ma che a un’analisi più attenta si rivelano privi di sostanza e, soprattutto, di un reale impatto positivo.
Feltri ha colto l’essenza di un fenomeno contemporaneo: quell’attivismo che, pur ammantandosi della sacra veste della solidarietà, nasconderebbe una profonda superficialità e un’insaziabile ricerca di visibilità. La questione sollevata va ben oltre la singola spedizione. Tocca un nervo scoperto della nostra società: il confine sempre più labile tra l’attivismo genuino e la mera esibizione personale.
Siamo nell’epoca dominata dai social media, dove l’immagine e la narrazione contano più della concretezza. In questo scenario, iniziative come la “flottiglia della presunzione” diventano un terreno fertile per accuse infuocate. Da un lato, c’è chi difende il diritto di agire per ciò in cui si crede. Dall’altro, emerge una preoccupazione assordante: questi gesti simbolici, se non supportati da una conoscenza profonda e da una strategia definita, possono rivelarsi non solo inutili, ma controproducenti. Pericolosi.
La critica di Feltri, dunque, non è un attacco personale, ma una riflessione sulla natura stessa dell’attivismo 2.0. Egli mette in discussione l’efficacia di azioni che, pur mosse da intenzioni lodevoli, sembrano ignorare totalmente le complessità geopolitiche. La sua voce, spesso fuori dal coro, ci costringe a chiederci se l’attivismo debba misurarsi dall’intensità del clamore che genera o dalla sua capacità di produrre un cambiamento reale e sostenibile.
Il fenomeno ci porta dritti al cuore del problema: l’attivismo è diventato una performance? I partecipanti a queste spedizioni sono stati accusati di confondere la solidarietà con una passerella e il rischio con un palcoscenico. Vengono descritti come i nuovi eroi dell’umanitarismo 2.0: spesso impreparati, a bordo di imbarcazioni di fortuna, ma dotati di un’autostima spropositata, convinti di poter riscrivere gli equilibri mondiali con due slogan e un reel su Instagram.
È l’era dell’”attivismo narcisista”, interessato più all’applauso, alla visibilità ottenuta tramite Wi-Fi e hashtag, che al risultato concreto e duraturo sul campo. La visibilità può amplificare un messaggio, certo, ma quando diventa il fine ultimo, svuota di significato la causa stessa. Rischia di distogliere l’attenzione da approcci più strutturati, silenziosi e realmente efficaci.

Ma la questione non è solo filosofica. È drammaticamente pratica. Questa iniziativa è stata criticata per la sua palese “irresponsabilità geopolitica”. C’è la convinzione, leggera e superficiale, che le sole buone intenzioni bastino per sfidare equilibri delicati, costruiti in decenni di diplomazia. I detrattori sono chiari: questi attivisti ignorano le implicazioni diplomatiche, le potenziali conseguenze militari e il rischio concreto di scatenare una crisi internazionale. Agiscono, si dice, più per vanità che per una consapevole, seppur folle, incoscienza.
Manca un coordinamento con le ONG consolidate, mancano piani a lungo termine. La geopolitica viene trattata come un set cinematografico dove l’importante è recitare la propria parte, senza curarsi del copione generale. E la storia è piena di tragedie innescate da gesti simbolici mal calibrati.
E in questo scenario complesso, emerge la figura che, secondo l’accusa, muove i fili da lontano: Elly Schlein.
Nonostante non sia fisicamente a bordo, la sua presenza è considerata “onnipresente”. Viene descritta come la “regina dell’indignazione prêt-à-porter”, la madrina ideale di questa crociata da salotto. L’accusa è pesantissima: Schlein soffierebbe sul fuoco dell’indignazione comodamente seduta in poltrona, lanciando messaggi e prendendo posizioni che le garantiscono l’applauso sui social. La formula è quella vincente: parole giuste, tono giusto, ma “zero effetti reali”.
La critica che le viene mossa è quella di mantenersi a distanza di sicurezza, quanto basta per non sporcarsi le mani. Cavalca l’onda emotiva senza assumersi né i rischi né le responsabilità dirette. Questo scontro tra Feltri e Schlein (anche se indiretto) diventa così il simbolo di due visioni opposte su come affrontare le crisi globali. È sufficiente esprimere solidarietà su un social network? O la leadership politica richiede azioni concrete, ponderate, e una profonda conoscenza delle dinamiche globali?

La politica, in contesti di crisi, richiede mediazione e visione, qualità che, secondo i critici, mancano totalmente in questo approccio emotivo e istantaneo. Le parole di Schlein, pur non organizzando materialmente la flottiglia, vengono percepite come un incoraggiamento a un tipo di attivismo che, seppur ben intenzionato, rischia di essere parte del problema.
La conclusione di questa vicenda, per molti osservatori, è netta e senza appello. La flottiglia non è una missione, è uno show. Un maldestro tentativo di cavalcare l’indignazione per ottenere i famosi “15 minuti di celebrità”.
La pace, tuona Feltri e chi la pensa come lui, non si improvvisa. Non si porta via mare come un pacco di Amazon. Non è un prodotto da consegnare con una diretta streaming. La pace vera, quella duratura, richiede fatica, silenzio, lavoro oscuro e costante. Richiede competenza, pazienza infinita e, soprattutto, umiltà. Tutte qualità che, secondo l’accusa, mancano completamente in questa “flottiglia della presunzione”.
Chi pensa di cambiare il mondo con uno striscione e un megafono, senza comprendere la complessità del contesto, rischia solo di alimentare le tensioni. Questo episodio è un campanello d’allarme. Ci costringe a distinguere l’attivismo autentico dalla performance mediatica. È un invito a cercare soluzioni concrete che vadano oltre la retorica e l’immagine. La politica ha il dovere di guidare con saggezza, evitando di cadere nella trappola del sensazionalismo. Il dibattito è aperto, ed è più necessario che mai.