Preparatevi, perché quello che stiamo per raccontare non è la trama di una serie televisiva sulla politica, ma la cronaca cruda, grottesca e quasi incredibile di ciò che è accaduto nei corridoi e, soprattutto, nell’aula del Senato della Repubblica. È la storia di un giorno in cui un banale passaggio tecnico si è trasformato in un detonatore politico, capace di far saltare in aria le già fragili fondamenta di un’opposizione in perenne crisi d’identità.
Tutto ha inizio con una mozione. Un atto parlamentare come tanti, di quelli che solitamente scorrono via nel silenzio dei palinsesti, invisibili al grande pubblico, spesso ignorati persino dagli stessi addetti ai lavori. A presentarla è Carlo Calenda, figura che ha costruito la sua intera narrazione pubblica sul pragmatismo, sulla concretezza, su un approccio “da manager” prestato alla politica. La mozione è lineare, semplice, talmente condivisibile nei contenuti che persino il governo guidato da Giorgia Meloni non trova un solo motivo valido per opporsi. Anzi, decide di appoggiarla.
È qui, in questo preciso istante, che la commedia si trasforma in farsa, o forse in tragedia. Nel Partito Democratico, principale forza d’opposizione, scatta l’allarme rosso. Si accende una spia che non ha a che fare con il contenuto del testo, ma con la sua “contaminazione”. Il sillogismo che manda in cortocircuito la logica istituzionale è terribilmente semplice: se Giorgia Meloni e i suoi votano a favore, allora quella mozione diventa automaticamente un nemico. Non importa che sia ragionevole, utile al Paese, o persino necessaria. Il solo fatto che il “nemico” la approvi la rende inaccettabile.
È l’applicazione pura e semplice di un’ideologia da curva sud, dove non conta cosa si dice, ma solo chi lo dice. Dove l’appartenenza tribale supera qualunque valutazione di merito. Un fanatismo identitario che congela il dibattito e trasforma il Parlamento in uno stadio.
Ma in questo copione, apparentemente già scritto e destinato a concludersi con l’ennesima conta tra guelfi e ghibellini, qualcosa si inceppa. Tre figure, tre senatori del Partito Democratico, decidono di non piegarsi a questo schema infantile. Decidono, in un atto che in un contesto normale sarebbe banale ma che qui diventa rivoluzionario, di usare la propria testa.
I loro nomi diventano immediatamente il simbolo della frattura. Il primo è Pier Ferdinando Casini, l’uomo che ha attraversato ogni stagione della Repubblica, da Andreotti in poi. Un navigatore esperto di acque agitate, sempre in equilibrio tra sponde opposte, che con la sua esperienza sa infischiarsene delle etichette e delle logiche di partito quando diventano assurde. Il secondo è Filippo Sensi, ex stratega della comunicazione, un uomo che riconosce l’assurdità della situazione e decide di agire secondo coscienza, rifiutando di farsi intrappolare in una logica cieca. E infine, Simona Malpezzi, ex capogruppo, che fa la cosa più clamorosa di tutte: legge il testo, lo valuta nel merito e decide di votare a favore.
Votano. Votano con la maggioranza. Sì, proprio insieme a Giorgia Meloni.
Apriti cielo. Scoppia il finimondo. Questo passaggio non riguarda solo tre voti in più o in meno; è il simbolo del crollo totale di una linea politica costruita sull’opposizione pregiudiziale, sul “no” a prescindere. Il Partito Democratico entra in uno stato di isteria collettiva. Dai vertici ai giornali d’area, passando per opinionisti e dirigenti, tutti si stracciano le vesti. Le parole che rimbalzano sono “tradimento”, “indisciplina”, “crisi di identità”, “atto di lesa maestà”.
Eppure, in questo pandemonio di accuse, nessuno, e sottolineiamo nessuno, si ferma un istante a porre la domanda più semplice e fondamentale: “Ma cosa c’era scritto, davvero, in quella mozione? Era davvero così sbagliata?”. La risposta, ovviamente, è no. Ma la risposta non interessa più a nessuno. Il processo è al mezzo, non al fine. Il crimine non è aver votato un contenuto sbagliato, ma aver rotto l’unità del dogma.
E Giorgia Meloni? Cosa fa la Premier in tutto questo? Nota per non lasciar correre nemmeno mezza critica, per la sua reattività quasi istantanea, questa volta stupisce tutti. Entra in aula, ascolta il dibattito, incassa i voti e poi tace. Non una parola, nessuna replica, nessuna scintilla. Solo un gelido silenzio. Ma quel silenzio pesa come un macigno. È chirurgico. Ed è, soprattutto, terribilmente efficace. Mentre l’opposizione sbraita, si lacera e si autodistrugge in diretta nazionale, lei ottiene esattamente ciò che voleva, senza nemmeno dover alzare la voce. Lascia che siano gli altri a distruggersi da soli. Ha fatto un passo indietro, per farne due avanti.
Ma ora viene il dettaglio che fa saltare ogni schema residuo di logica politica. Il Partito Democratico non solo si trova spiazzato dai suoi stessi senatori, ma perde l’ennesima occasione di presentarsi come una forza di opposizione adulta, matura, capace di dialogo e di costruzione. No, preferisce l’integralismo ideologico. È il suo stesso capogruppo al Senato, Francesco Boccia, a verbalizzare il dogma, senza lasciare margini di interpretazione: non si vota nulla, nulla, che venga dal centrodestra o dai suoi alleati. Tradotto: anche se è buono, anche se è utile, anche se lo condivideremmo nel merito, noi lo bocciamo. Punto.
In quel momento, la scena si capovolge. Carlo Calenda, l’uomo da mesi accusato di irrilevanza, di essere un satellite senza orbita, riesce in un colpo solo a ottenere tre risultati straordinari: manda un segnale forte di pragmatismo, riceve i voti che spaccano plasticamente l’opposizione e mette in crisi l’intero, traballante sistema delle alleanze. Per un giorno, Calenda, con una mozione impeccabile e sobria, diventa il perno della politica italiana, dimostrando che fare politica senza rumore, ma con intelligenza, è ancora possibile.

Nel frattempo, la segretaria del PD, Elly Schlein, è la grande assente presente di tutta la vicenda. Proprio lei che, solo pochi giorni prima di questa votazione, aveva telefonato direttamente a Giorgia Meloni per invocare un abbassamento dei toni, per chiedere dialogo e confronto istituzionale. Parole. Ma al momento della scelta reale, al momento di dimostrare quel dialogo su un testo condivisibile, viene superata e smentita dal suo stesso capogruppo, che impone l’astensione (o il voto contrario) come se fosse un dogma religioso.
È il ritratto di un partito che predica il confronto e pratica il rifiuto. Che parla di maturità politica e si comporta come una setta che deve espellere i dissidenti, i “traditori” che hanno osato pensare.
Fermatevi un attimo e riflettete su questo. Qui la politica smette di essere uno strumento di cambiamento, di amministrazione, di miglioramento della cosa pubblica. Diventa solo una guerra tra tifoserie. I tre senatori hanno osato pensare. Casini se n’è infischiato delle etichette. Sensi ha rifiutato la logica cieca. Malpezzi ha dimostrato che non serve urlare per essere coerenti; basta leggere, capire e scegliere. Hanno semplicemente usato il cervello.
E mentre la stampa impazzisce e le televisioni costruiscono il “caso”, il Partito Democratico dibatte su se stesso. Ma su cosa? Sul contenuto della mozione? No. Sull’identità. Già, l’identità. Ma se questa identità serve solo a dire “no” per partito preso, allora non è più un valore. È una prigione.

Fuori dal palazzo, i cittadini osservano. Smarriti. Alcuni indignati, altri ormai rassegnati. Molti si pongono una domanda semplice: che senso ha un’opposizione che si oppone anche a ciò che condivide?
Questa domanda pesa come un macigno. Perché in politica contano le idee, ma contano ancor di più le scelte. E allora, chi ha davvero vinto questa partita? Meloni ha portato a casa il risultato senza alzare la voce. Calenda ha centrato l’obiettivo, diventando un protagonista inatteso. Casini, Sensi e Malpezzi hanno trasformato un gesto di normalità in una lezione di coraggio.
Il Partito Democratico, invece, ha perso. Ancora una volta. Ha perso pezzi. Ha perso tempo. Ha perso credibilità. E, cosa più grave, ha perso il contatto con quella parte del Paese che non ne può più degli spettacoli, che chiede solo una cosa: politica vera.
Perché dire “no” è facile. È la via più semplice per cementare la propria tifoseria. Ma pensare, scegliere, e a volte persino convergere, è ciò che in politica fa davvero la differenza. E mentre il palazzo grida al tradimento, i veri traditi sono gli elettori. Quelli che vogliono concretezza, che non si accontentano degli slogan e che pretendono sostanza.