AH, I ‘FASCI’ SONO SOLO GLI ALTRI?” – CRONACA DI UNA DEMOLIZIONE: VANNACCI ASFALTA FRATOIANNI SULLA VIOLENZA E LO FINISCE CON UNA BATTUTA LETALE

Ci sono serate televisive che scorrono via, e altre che si conficcano nella memoria collettiva, agendo come uno spartiacque. Momenti così intensi da far trattenere il respiro, in cui il dibattito politico smette i panni del confronto civile e indossa quelli del duello all’arma bianca. Quella a cui abbiamo assistito non è stata una discussione, ma un’arena. Un evento che ha messo a nudo, con una chiarezza quasi brutale, le profonde fratture ideologiche e culturali che attraversano il nostro Paese, lasciando un segno indelebile.
Sul ring televisivo, due mondi agli antipodi. Due visioni radicalmente diverse dell’Italia.
Da un lato, il generale Roberto Vannacci. Una figura ormai abituata a polarizzare, a suscitare reazioni viscerali. Le sue posizioni schiette, la sua presenza scenica forte e diretta, ne fanno un interlocutore temuto, capace di intercettare e dare voce a un malcontento diffuso. Non usa filtri, non cerca mediazioni.
Dall’altro lato, Nicola Fratoianni, volto riconoscibile della sinistra progressista. Da sempre impegnato nella difesa dei diritti civili, dell’inclusione e delle minoranze. La sua retorica è solitamente pacata, ferma, basata su principi etici e ideologici chiari, in netto contrasto con le visioni più tradizionaliste.
L’atmosfera nello studio era palpabile. Carica di una tensione quasi elettrica, si percepiva che non sarebbe stata una serata come le altre. Il tema ufficiale del dibattito, “Libertà di espressione e limiti del dissenso politico”, si è rivelato fin da subito un campo minato. La scintilla, attesa, è esplosa con la forza di una granata.
Il primo a muovere è stato Fratoianni. Ha aperto il confronto con un’accusa precisa, puntando il dito contro un recente raduno di estrema destra, definito senza mezzi termini un “ritrovo di neofascisti e neonazisti”. Ha sottolineato il pericolo che tali manifestazioni rappresentano per i valori democratici, un richiamo a periodi bui della nostra storia. La sua era una mossa per stigmatizzare, per tracciare una linea morale.
La reazione di Vannacci non si è fatta attendere. È stata immediata, veemente. Un contrattacco frontale che ha immediatamente alzato la posta. Il generale ha tuonato che Fratoianni non aveva “né il titolo legale né quello morale” per decidere chi avesse il diritto di riunirsi. Ha rivendicato con forza “l’inalienabile diritto” di manifestare pacificamente in nome della libertà di pensiero, pilastro di ogni democrazia. Il messaggio era chiaro: limitare questo diritto significa minare la libertà stessa.
Fratoianni ha replicato, richiamando i pericoli di certe derive ideologiche, di simboli che evocano dolore. Ma qui, Vannacci ha sferrato il primo, vero colpo da maestro tattico. Ha accusato il suo interlocutore di ipocrisia. “Predicate l’inclusione,” ha scandito, “ma praticate di fatto l’esclusione”. Ha dipinto l’immagine di una sinistra che, a suo dire, mette “al rogo mediatico” chiunque non la pensi esattamente come loro. Demonizzare raduni pacifici, ha argomentato, è un atto antidemocratico che nega il pluralismo.
Il dibattito era già acceso, ma Vannacci aveva in serbo la mossa che avrebbe cambiato le regole del gioco. Con una virata improvvisa, ha spostato il discorso da un terreno scivoloso (le ideologie) a uno esplosivo: la violenza politica.

Con tono deciso, ha sostenuto che i “veri violenti” non sono coloro che si riuniscono per esprimere idee, per quanto controverse, ma “quelli che spaccano, rompono e attaccano la polizia durante le manifestazioni della sinistra”. L’accusa era diretta, circostanziata. Ha menzionato episodi specifici a Milano, Busto Arsizio, Gallarate, descrivendo scene di disordini e scontri. Ha messo Fratoianni di fronte a un paradosso: “Chi si definisce difensore della democrazia, usa la violenza per impedirla”.
A questo punto, l’inerzia dello scontro è cambiata. Fratoianni è apparso visibilmente sulla difensiva. Ha cercato di controbattere, di sottolineare che il generale stava minimizzando il pericolo dell’estrema destra, che la violenza non è solo fisica ma anche “verbale e simbolica”. Ma la sua voce faticava a sovrastare la narrativa più semplice e brutale imposta da Vannacci. Il generale lo stava trascinando sul suo terreno.
Ed è qui che è arrivata la mazzata finale del primo round. Vannacci ha giocato la sua carta a sorpresa. Ha rivelato, con precisione chirurgica, che una persona “vicina all’area politica di Fratoianni”, recentemente promossa a un ruolo di rilievo europeo, sarebbe “indagata per episodi di violenza politica”.
L’accusa, pesantissima, ha colto Fratoianni totalmente di sorpresa. Per un attimo, il leader di sinistra è rimasto muto, visibilmente scosso. Ha tentato una difesa affannosa, poco convincente. Ma il danno d’immagine, in quel preciso istante, era fatto. L’ombra del sospetto era stata gettata, e l’argomentazione morale di Fratoianni contro la destra perdeva improvvisamente di forza.
Questa serata ha rivelato una verità fondamentale del mezzo televisivo. Spesso, nell’arena mediatica, non vince chi ha ragione nel merito, ma chi possiede ritmo, tempismo e la capacità di comunicare in modo efficace. Vannacci ha dimostrato di avere ritmo, volume e timing perfetti. Ogni sua frase era una miccia, un’affermazione diretta, incisiva, pensata per colpire. Ha capito che nell’era della comunicazione istantanea, chi semplifica, polarizza e provoca, vince la battaglia dell’attenzione.
Fratoianni, al contrario, è apparso troppo accademico, troppo ancorato a un “politichese” che, seppur preciso, non si adatta a un’arena che cerca il “sangue dialettico”. La sua retorica, più complessa e misurata, ha faticato a imporsi, penalizzata dalla sua stessa natura riflessiva in un contesto che premia l’istinto.
Ma la demolizione non era finita. Nel secondo round, Vannacci ha incalzato, definendo l’idea di democrazia della sinistra un “club a iscrizione obbligatoria”, dove l’inclusione è selettiva. Fratoianni, visibilmente irritato, ha ribattuto che non si può legittimare chi diffonde odio, che la libertà di espressione ha dei limiti etici. La discussione è tornata sulla violenza, con Vannacci che accusava la sinistra di tacere quando i suoi manifestanti “aggrediscono la polizia”.
Il confronto ha raggiunto il suo culmine grottesco nel finale. Fratoianni, nel tentativo di smorzare i toni e generalizzare, ha usato l’espressione comune: “Non si può fare di tutta l’erba un fascio”.
Vannacci ha colto al volo il gioco di parole involontario. Con un sorriso sardonico, quasi crudele, ha replicato, fulminandolo: “Ah, quindi i ‘fasci’ sono solo gli altri?”.
Questa battuta, carica di un’ironia amara, ha colpito Fratoianni nel vivo. Ha trasformato un’espressione innocente in un’arma retorica letale. Il leader della sinistra è esploso, definendola un “attacco personale”, una “strumentalizzazione inaccettabile”. Ma Vannacci l’ha liquidata con un gesto, come un “semplice promemoria”. Il conduttore, descritto come pallido e in difficoltà, ha tentato invano di riportare la calma. Lo scontro era ormai fuori controllo, il pubblico senza fiato.
Questa serata non è stata un semplice battibecco. È stata lo specchio delle tensioni che attraversano la società. Ha dimostrato che la comunicazione politica è cambiata: l’impatto immediato e la performance contano più del contenuto. Ha sollevato interrogativi fondamentali: dove finisce la libertà di parola e inizia l’incitamento all’odio? Chi decide i limiti? Domande che restano aperte, mentre la ricerca di un confronto costruttiv