“Nei giorni in cui devo camminare da solo e rialzarmi dopo le cadute, Lewis Hamilton ha condiviso che, nonostante le infinite difficoltà, rimane determinato a superare tutte le sfide, apprezzando coloro che sono sempre stati al suo fianco e ricordando chi se n’è andato, promettendo allo stesso tempo di tornare al vertice in un giorno non lontano.”

“Nei giorni in cui devo camminare da solo e rialzarmi dopo le cadute, Lewis Hamilton ha condiviso che, nonostante le infinite difficoltà, rimane determinato a superare tutte le sfide, apprezzando coloro che sono sempre stati al suo fianco e ricordando chi se n’è andato, promettendo allo stesso tempo di tornare al vertice in un giorno non lontano.”

Ci sono stagioni in cui la pista sembra più lunga, le curve più strette, il box più lontano. Lewis Hamilton lo sa meglio di chiunque: ci sono giorni in cui devi camminare da solo, contare i passi, ascoltare il rumore delle tue stesse domande e poi, senza clamori, rialzarti. È in questi interstizi del silenzio che prende forma la sua promessa: non smettere di crederci, nonostante l’attrito delle sconfitte e la gravità delle delusioni. Ogni giro mancato, ogni podio sfiorato, ogni strategia che si sgretola al vento di una Safety Car diventa materia prima di una rinascita metodica, quasi artigianale.

Hamilton parla di difficoltà “infinite” non per iperbole, ma perché la memoria dell’atleta non dimentica: gli inverni di lavoro oscuro, le sessioni al simulatore quando il mondo dorme, il peso dei paragoni che non lasciano tregua. Eppure, nel suo racconto, la resilienza non è un gesto eroico, è una disciplina quotidiana. Comincia con il fiato controllato nell’abitacolo, continua nelle riunioni in cui si discutono millesimi come fossero chilometri, si compie nel riconoscere i dettagli che trasformano un’auto capricciosa in una compagna affidabile. “Rialzarsi” significa anche proteggere la curiosità: chiedersi di nuovo perché un’uscita di curva ha perso trazione, perché una finestra di temperatura non si è accesa, perché il corpo ha esitato dove la mente era pronta.

Poi c’è la gratitudine, parola semplice e sorprendentemente pesante. Hamilton la pronuncia per chi è rimasto: la squadra che regge il timone quando la tempesta graffia, gli amici che non fanno domande inutili, la famiglia che ricorda chi c’è sotto la tuta. La gratitudine, però, guarda anche indietro, verso chi se n’è andato: le strade che si sono divise, le voci che hanno smesso di chiamare, gli sguardi persi nelle logiche di un circo che non aspetta nessuno. Non c’è rancore in quel ricordo, c’è soltanto la consapevolezza che ogni assenza ha educato la presenza, affinato la percezione di ciò che conta.

La determinazione di Hamilton non ha il tono della battaglia urlata: è il respiro profondo prima del via, l’out-lap disegnato come un rituale, l’istante in cui il rumore del pubblico si dissolve e la traiettoria diventa una linea di pensiero. Promettere di tornare al vertice non è sfidare il destino, è negoziare con il tempo: allenare il corpo a reggere la ripetizione, allenare la mente a non farsi derubare dai fantasmi del “quasi”, allenare il cuore a sostenere l’attesa senza confondere la pazienza con la resa. Il vertice, per lui, non è soltanto un trofeo: è la coincidenza esatta tra ciò che sa fare e ciò che, quel giorno, la macchina gli permette di essere.

In un mondo che misura tutto con l’immediatezza del risultato, Hamilton sceglie una grammatica più lenta, più vera. Sa che l’alba non è meno alba se arriva un’ora dopo. Sa che la strada del ritorno passa per passi corti e sicuri, per gesti piccoli e ripetuti, per scelte sobrie che, sommate, cambiano la mappa. E quando quel giorno non lontano arriverà, non avrà il sapore dell’improvviso: sarà il raccolto di un cammino solitario fatto di cadute, sì, ma soprattutto di risvegli.

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